In qualunque società umana esistono elementi di contrasto tra due o più parti, che possono presentarsi sia tra membri della stessa famiglia, che tra vicini di casa, tra intere comunità o tra culture differenti, e che possono sfociare in episodi di violenza, fisica, verbale o psicologica. Per affrontare questa dinamica sociale, nell’Europa settentrionale, da qualche anno a questa parte, si cerca di utilizzare nuovi metodi alternativi all’intervento della magistratura o delle forze dell’ordine. In Danimarca, Paese in cui studio e vivo, la figura del “mediatore di conflitti” ha assunto un ruolo chiave nel disinnescare questi problemi, diminuendo così le spese pubbliche inerenti ad interventi di polizia e spese legali, sia per conto dello Stato che per gli individui.
Durante i miei studi, grazie ad un workshop organizzato dal corso di laurea magistrale Human Security, dell’Università di Århus, ho avuto l’occasione di approfondire il metodo danese della gestione dei conflitti: due dei cinque mediatori dell’Østjyllands Politi (la polizia della regione di Århus), Christian B. N. Gade e Bjarne Friis Pedersen, hanno dimostrato, con dei casi reali, cosa significa mediare un conflitto, analizzando tutte le fasi empiriche dallo sviluppo delle ostilità fino al raggiungimento di una tregua tra le parti, quando possibile.
Ogni conflitto nasce da un dissenso tra le parti, di qualunque portata esso sia: un cane che abbaia tutta la notte, una macchina parcheggiata male, delle abitudini culturali fastidiose per qualcuno, ecc. Una volta identificato l’elemento di disturbo, una delle parti inizierà a crearsi delle idee negative sulla persona che si reputa responsabile del disagio stesso, spostando così l’attenzione dal problema in sé sulla persona da “condannare”. Da questo momento il conflitto è in caduta libera, e non migliorerà a meno che le parti non decidano di fare un passo indietro e di risolvere il problema congiuntamente.
Il dialogo diventa impossibile, poiché le parti non sono mosse da razionalità, ma da preconcetti ed emozioni.
Naturalmente, spostata l’attenzione dal problema all’individuo, il conflitto si espande e va ad alimentare un pregiudizio tale per cui qualsiasi azione del “condannato” sia misurata con una particolare attenzione, volta a trovare altri problemi da attribuirgli. A questo punto il dialogo diventa impossibile, poiché le parti non sono mosse da razionalità, ma da preconcetti ed emozioni, ed hanno iniziato a costruire delle immagini fittizie del “nemico”, descrivendolo come una persona malvagia e negativa. Le ostilità ormai sono aperte e in continua crescita, quindi le parti cercano “alleati” con i quali costruire altre immagini negative, polarizzando definitivamente il conflitto in parti ben definite e rivali.
Queste fasi del conflitto sono state teorizzate sulla base dell’esperienza della polizia e della magistratura danese, che ha introdotto la figura del mediatore come esperto, capace di disattivare la tensione sociale senza far incorrere le parti in battaglie legali effimere. Come si può descrivere il ruolo del mediatore all’interno dei conflitti di questo genere? Come si inserisce in un contesto non proprio, senza risultare inopportuno?
Il mediatore è innanzitutto un civile che offre consulenza alle forze dell’ordine, e che, su richiesta del comando di polizia o della questura, offre alle parti un incontro personale, prima con l’accusatore, poi con l’accusato. A questo punto le parti decidono volontariamente se incontrarsi tra loro in presenza del mediatore, il quale, una volta introdotti i litiganti nella stanza con tecniche di accoglienza neutrale, focalizza la propria attenzione nello spingere le parti a descrivere i fatti accaduti secondo i loro punti di vista. Dopodiché, il mediatore cerca di far esprimere sensazioni e sentimenti delle parti, di modo che possano ricavare delle nuove informazioni a loro prima sconosciute ed inaccessibili a causa dell’assenza di dialogo. Infine le parti sono invitate ad esprimere le loro necessità come individui volenterosi di vivere in un ambiente sociale tranquillo e pacifico. La durata e il numero di incontri sono regolati in base alle necessità e alle volontà degli individui.
Il mediatore cerca di far esprimere sensazioni e sentimenti delle parti, di modo che possano ricavare delle nuove informazioni a loro prima sconosciute ed inaccessibili a causa dell’assenza di dialogo.
E’ importante notare che il ruolo del mediatore non è quello di risolvere i conflitti, magari proponendo soluzioni alle parti, bensì quello di ripercorrere le fasi del conflitto al contrario, smontando tutte le costruzioni psicologiche superflue che hanno allontanato nel tempo le parti dalla discussione sul fatto in esame. I pregiudizi e le immagini negative che gli individui sviluppano sono degli ostacoli molto difficili da individuare e da superare, e, grazie alla figura del mediatore, tramite il dialogo si recupera l’attenzione sul vero fulcro del problema.
Anche se non è stato ancora calcolato il beneficio economico alla società danese e al sistema statale, i casi trattati non hanno più avuto bisogno d’interventi diretti da parte delle forze dell’ordine, essendosi sviluppati tramite altri incontri con i mediatori o, nel peggiore dei casi, con la magistratura. Il vantaggio di questo nuovo servizio è di portare gli individui a risparmiare denaro e tempo prezioso tramite il dialogo: una lezione di sensibilità umana che in Italia, a mio avviso, è urgentemente necessaria.
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