Poche cose evocano l’atmosfera natalizia quanto Charles Dickens. Il suo Canto di Natale è una delle più celebri incarnazioni letterarie di questa festività. Suona famigliare anche a chi di Dickens non ha letto un solo libro, il che rende l’idea di quanto sia stato – e continui ad essere – uno scrittore immensamente popolare.
Se riesce a rimanere ancora oggi famoso in tutto il mondo, in Inghilterra rappresenta addirittura un pilastro dell’immaginario collettivo. La vividezza con cui dipinse alcuni dei personaggi più indimenticabili della sua epoca, quella vittoriana, e la larga distribuzione di cui beneficiò tramite la pubblicazione a puntate sui giornali lo fece arrivare nelle case di tutti: operai, commercianti, liberi professionisti, aristocratici, bambini, adulti, ricchi e poveri, colti e incolti.
Non risparmia nessuno: dalla scuola alle industrie, dal ceto militare ai proprietari terrieri, dal tribunale al Parlamento, tutti vengono passati sotto la lente della sua indignazione morale.
Molte sue opere (Tempi difficili, Casa desolata, Grandi speranze fra le più conosciute) sono veri e propri attacchi verso ogni tipo di istituzione inglese. Non risparmia nessuno: dalla scuola alle industrie, dal ceto militare ai proprietari terrieri, dal tribunale al Parlamento, tutti vengono passati sotto la lente della sua indignazione morale. Per questo motivo viene spesso definito dalla critica – a volte in maniera riduttiva – il fondatore del romanzo sociale, cioè di quel tipo di narrativa che “parla dei ceti sociali economicamente svantaggiati e denuncia situazioni di sopruso e pregiudizio”.
La prima immagine che ci viene in mente sentendo nominare Dickens è effettivamente quella di un piccolo orfano che vive in condizioni di miseria, maltrattato all’interno di qualche terribile stamberga annerita dal fumo delle fabbriche. Oliver Twist. David Copperfield. Nicholas Nickleby. E qui si evidenzia un altro tema che sembra stargli particolarmente a cuore: quello dell’infanzia.
Lo scrittore George Orwell, padre di 1984 e La fattoria degli animali, dedica a Dickens un lungo e interessante saggio (in Letteratura palestra di libertà, Oscar Mondadori, 2013), focalizzandosi proprio sul suo interesse per i bambini, sul suo profilo di autore popolare e sulla sua nomea postuma di campione del proletariato e dei poveri. Come gli è tipico, passa metà dell’analisi a decostruire la versione vulgata, i luoghi comuni e gli irrigidimenti ideologici (Dickens marxista, Dickens cattolico, Dickens rivoluzionario, ecc.) e l’altra metà ad offrirci la propria originale e lucidissima interpretazione di questa grande personalità letteraria.
Per Orwell “in ogni pagina della sua opera troviamo la consapevolezza che la società è sbagliata da qualche parte alla radice”, e fin qui è perfettamente d’accordo con lui. Ma “la critica sociale di Dickens è quasi esclusivamente morale”: non attacca mai il sistema economico fautore di quella povertà che descrive tanto bene e che tanto ci commuove, ma piuttosto la fallacia della natura umana in situazioni di potere. “La sua intera morale è che i capitalisti dovrebbero essere benevoli, non che gli operai dovrebbero ribellarsi” chiosa Orwell, “e l’intero suo messaggio è di una immane banalità: se gli esseri umani si comportassero bene, il mondo sarebbe un posto decente”.
“L’impressione più forte che si ricava dai suoi libri è l’odio verso la tirannia”
Viene così cassata ogni interpretazione “rossa” di Dickens – e giustamente, visto che l’etichetta avrebbe terrificato il piccoloborghesissimo autore. Ma Orwell ritiene che l’aspetto più affascinante delle sue opere sia un altro. “L’impressione più forte che si ricava dai suoi libri” dice con una certa ammirazione e provando sicuramente una forte affinità artistica e umana, “è l’odio verso la tirannia”.
Dickens non intende né modificare lo status quo né proporre sistemi alternativi di produzione o convivenza civile, ma avverte profondamente le ingiustizie, il dolore, l’isolamento di coloro che subiscono gli abusi di potere ed è in grado di dar loro voce come nessuno prima. A volte calca troppo la mano e finisce per risultare pietistico, sdolcinato e melodrammatico, soprattutto a lettori adulti, ma sicuramente dipinge davanti agli occhi immagini che è molto difficile dimenticare.
Gli esiti narrativi più fortunati li raggiunge tramite l’immedesimazione nella categoria più tristemente bistrattata della sua epoca: i bambini.
“Nessuno – perlomeno nessuno scrittore inglese – ha scritto dell’infanzia meglio di Dickens” afferma con sicurezza Orwell.
Ed a ragion veduta. Quando John Dickens, padre dello scrittore, finisce in prigione per debiti, la famiglia precipita nell’indigenza e il piccolo Charles viene mandato a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe. L’esperienza lo segnerà per tutta la vita e contribuirà a rendere particolarmente verosimili alcune pagine dei suoi migliori romanzi.
La prima metà dell’Ottocento non è un buon periodo per essere bambini. Il lavoro minorile è spaventosamente diffuso, specie nelle miniere o nei cotonifici; ragazzini giovanissimi vengono ancora processati e giustiziati per cose come piccoli furti; e persino nelle classi sociali che prevedono un’istruzione per i propri pargoli quest’ultimi, nell’ottica dell’essere temprati, vengono spesso frustati, affamati e sottoposti a ogni tipo di sevizia psicologica.
Una delle tante cause del persistente successo di Dickens, nota correttamente Orwell, è la sua enorme comprensione della mentalità infantile. La sua scrittura è particolarmente efficace nel denunciare la sofferenza, l’insensatezza e la crudeltà mentale insite nel sistema educativo del suo tempo. Per quanto sia terribile leggere di David Copperfield che lava bottiglie nel magazzino di Murdstone & Grinby, infatti, ciò che più fa stringere il cuore nei suoi libri sono le scene ambientate nelle aule di scuola. I suoi piccoli eroi sono bistrattati, umiliati e fatti rigare dritto con metodi di sadica solerzia che risultano molto famigliari a chiunque abbia avuto un maestro o un professore stupidamente severo – meno, grazie al cielo, le punizioni corporali.
“Se odiate la violenza e non credete nella politica, l’unica contromisura seria è l’istruzione. Forse la società è ormai irredimibile, ma c’è sempre speranza per il singolo essere umano, se si riesce a prenderlo quando è abbastanza giovane”
Ma come mai Dickens ha così a cuore il mondo dei bambini e della scuola? Secondo Orwell, il motivo è molto semplice. Abbiamo visto come Dickens mostri profonda diffidenza, se non disprezzo, nei confronti del mondo della politica e di coloro che lo abitano (aver fatto lo stenografo parlamentare deve averlo fatto disilludere ben presto) e quanto non pensi sia risolutiva la sollevazione popolare contro i propri sfruttatori (sintomatica è la sua descrizione dei sindacati, visti alla stregua di un racket); abbiamo anche percepito quanto odi la sopraffazione, la forbice esagerata fra poveri e ricchi, la miseria che imbruttisce.
Ma dunque su cosa vale la pena lavorare per migliorare le cose? Per Dickens – e anche per Orwell – non sugli adulti, ormai cresciuti male e fagocitati dal sistema, ma proprio sui bambini. Nel passo forse più memorabile del saggio si legge: “Se odiate la violenza e non credete nella politica, l’unica contromisura seria è l’istruzione. Forse la società è ormai irredimibile, ma c’è sempre speranza per il singolo essere umano, se si riesce a prenderlo quando è abbastanza giovane”.
In queste parole si legge tutta la desolazione novecentesca di Orwell, ma il principio resta fondamentalmente valido. Dickens non riuscì a formularlo con tanta chiarezza – non era nemmeno il suo compito, essendo lui principalmente un romanziere e non un attivista – ma Orwell gli riconosce il merito di essersi concentrato sul problema delle generazioni del domani, sul loro diritto ad avere un’infanzia serena e ad essere cresciute ed educate con umanità. Se i bambini venissero trattati bene, sembra dirci, diventerebbero degli adulti meno deficitari. Come consiglio sembra facilone quanto il “comportatevi bene” scritto in filigrana in ogni suo lieto fine o scena strappalacrime, ma non è superficiale come sembra.
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